Laura Facchinelli - Arte |
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Ti proponi di comunicare, con la pittura? Forse no, comunque non cerco il consenso. Dipingo per me stessa, per esplorare, per svelare, forse, e aspetto di entrare in sintonia con qualcuno che, visitando la mia mostra, “senta” quello che volevo dire. Quando succede, ci sono attimi di intesa profonda. Anche senza parole.
La comunicazione è più facile quando riproduci la realtà? Sì, ma spesso si tratta di un semplice “riconoscimento” dei luoghi, che mi interessa poco. Tornando alla mia pittura realistica, questa modalità è proseguita per tutti gli anni ’90 e ancor oggi mi tenta, ma penso di aver superato la “dipendenza” dal vero: prima, infatti, godevo nel riprodurre tale e quale, per esempio, un passo alpino con “quelle” rocce, “quella” vegetazione d’alta quota abbarbicata ai massi, “quelle” nuvole in transito nel cielo. Invece le opere più recenti si sviluppano su una specie di montagna-simbolo, accentuando la perlustrazione delle superfici, giocando sul filo dei richiami inconsci fra roccia e carne, verticalità, trasparenza, luce e ricerca spirituale. È una specie di “psicoanalisi delle rocce”, dove varie esperienze si sedimentano.
Per esempio? Confrontandomi con le tele che avevo concepito nei primi anni ’70, quando amavo la Metafisica, ho riscoperto un senso di attesa che ora si traduce in spazi privi di luce naturale (il cielo è blu notte), ma densi di allusioni. Là dove un cielo dorato richiama l’amata pittura trecentesca, intrisa di religiosità, si può avvertire una tensione quasi mistica. In alcuni dipinti esploro la grafia inscritta nel paesaggio usando il pennello, che torna più e più volte sulle stesure di colore già asciutte segnando striature, ombre sfumate, riflessi: un’esperienza ai limiti dell’astrazione. Oggi per me l’astrazione coincide col realismo, nel senso che, più scendo nel dettaglio, più tralascio la percezione della realtà.
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